I disturbi depressivi sono una classe di disturbi molto diffusi in tutto il mondo. Non riguardano solo gli adulti o gli anziani, ma possono colpire molto precocemente anche i bambini, anche se questi tendono a mostrare la loro depressione in modo diverso dagli adulti, divenendo più irrequieti ed irritabili.
Nel secolo scorso la depressione, per la sua estrema diffusione, spesso anche associata al “logorio della vita moderna” – come recitava una famosa pubblicità – è stata spesso definita “il male del secolo”. Naturalmente occorre osservare che dietro una categoria clinica così ampia e generale vi possono essere molte distinzioni. Molti quadri depressivi sono infatti prodromici (cioè sono l’inizio di qualche disturbo, che non sempre è la depressione), oppure transitori (sono cioè solo di passaggio, associati a qualche evento o a qualche fenomeno che scomparirà, magari spontaneamente), oppure evolutivi (molti adolescenti ad es. vivono una fase di malessere e di inquietudine, che ha a che fare con la crescita, con la paura del futuro, le insicurezze dell’età, ecc.), altri sono reattivi (sono cioè la chiara conseguenza di un evento tragico o duro da accettare, come la perdita di una persona cara, un licenziamento, la fine di un rapporto sentimentale, ecc.), altri infine sembrano nascere dal nulla, magari ai cambi di stagione e sono quelli che sembrano avere a che fare con aspetti endogeni del nostro organismo, misteriosi interruttori che sembrano accendere/spegnere la vitalità della persona seguendo invisibili cicli naturali.
In un suo celebre libro, “La trappola della felicità”, Russ Harris ha scritto che la nostra cultura si ostina a dipingere gli esseri umani come naturalmente portati ad essere felici, cosa che implica, conseguentemente, che l’infelicità sia considerata a priori qualcosa di patologico ed innaturale, e quindi malattia, alla quale diamo principalmente il nome di depressione. Molte statistiche indicano tuttavia che circa il 20% delle persone presenta sintomi depressivi e che addirittura un adulto su dieci nel mondo nel corso della sua vita tenta il suicidio. La probabilità statistica di soffrire, prima o poi, di un disturbo psichiatrico sarebbe del 30% (che allegria!). Come dire, noi esseri umani siamo certamente esposti a sperimentare tutta la gamma degli stati emotivi, non solo quelli positivi, che ci fanno stare bene e che cerchiamo di prolungare il più possibile, ma anche quelli negativi. L’ansia, il malessere, la preoccupazione, la tristezza sono tutte condizioni statisticamente “normali” e naturali della vita, che periodicamente incontriamo lungo la strada e che non possiamo pretendere di evitare completamente. Non sono degli “intrusi”, istanze innaturali o entità aliene, sebbene naturalmente non costituiscano per noi degli ospiti graditi.
Non c’è dubbio tuttavia che le parole che scegliamo abbiano un loro peso nel definire le cose e anche nel giudizio che noi diamo di noi stessi e della nostra condizione. Quando abbiamo l’umore a terra, siamo depressi o infelici? Qual è il termine più adatto. Se utilizziamo il termine depresso, questo richiama indubbiamente l’idea di un disturbo, qualcosa che non va nella nostra mente. Quello che proviamo sembra non avere senso per gli altri, sembra esagerato (a riprova che è un disturbo). Infatti molti pazienti che soffrono sintomi depressivi vengono quasi rimproverati dagli altri – che magari cercano in buona fede di farli reagire – con parole come “non hai niente, dovresti essere felice, cosa ti manca?”. Quando si è depressi serve subito un medico o uno psicologo che aggiusti le cose, perché si tratta di qualcosa di patologico. Se invece noi diciamo che la persona è infelice tutto sembra meno “ospedaliero”, suona più esistenziale, un turbamento profondo, legittimo. giustificato dalle avversità della vita. Eppure, è molto probabile che questa persona stia provando dentro di sé fondamentalmente le stesse cose.
Personalmente credo che sia vero che molti disturbi psicologici siano effettivamente molto presenti nella nostra epoca, ma penso anche che vi sia una tendenza eccessiva a classificare in termini di malattia anche condizioni psicologiche che possono anche essere più comunemente annoverate come “male di vivere”. In un altro bel libro “Primo: Non curare chi è normale”, un famoso psichiatra americano, Allen Frances, sottolinea questo concetto. È assolutamente vero che la sofferenza depressiva esiste, sia che sia dovuta ad un fenomeno biochimico, sia che sia dovuta ad un dispiacere, o a quant’altro, ma non c’è dubbio che si debbano distinguere con attenzione i livelli di gravità. La Depressione (con la D maiuscola), da un lato, e le condizioni a carattere depressivo maggiormente associate con le avversità della condizione umana, dall’altro. Le prime sono quelle in cui la persona perde letteralmente la sua vitalità, non prova più interesse né piacere nelle cose, sembra spenta, senza energie, non ha alcun desiderio in particolare, vorrebbe solo riposare, non avere più alcun peso da sopportare. La altre condizioni possono essere caratterizzate da grande sofferenza emotiva, dolore e pianto, ma la persona emotivamente è presente, è viva, continua ad agire nella realtà, sebbene con fatica. I quadri depressivi meno gravi non impediscono alla persona di mantenere un sufficiente funzionamento. Probabilmente queste persone hanno bisogno di risolvere alcuni problemi (talvolta assolutamente pratici), fanno una vita poco soddisfacente, non hanno molte relazioni o amicizie appaganti. Perché una persona dovrebbe essere felice se è sola, annoiata, ha un reddito basso ed un lavoro che non le piace? Gli interventi psicoterapeutici sono indubbiamente anch’essi cura – non per nulla contengono la parola terapia – ma intendono aiutare la persona a reagire alla sintomatologia depressiva (o all’infelicità e all’insoddisfazione) agendo attivamente alla ricerca di ciò che dà maggior senso alla propria vita.
I farmaci antidepressivi vanno bene soprattutto per i soggetti molto depressi, come ha ampiamente dimostrato in una serie di celebri studi Irving Kirsch, mentre sono molto meno utili ed efficaci per gli altri, per chi è meno depresso. Gli psicoterapeuti che vedono nella loro carriera numerosi pazienti depressi, si accorgono che alcuni di loro (quelli più gravi) vengono effettivamente aiutati dai farmaci (e delle volte, purtroppo, solo dai farmaci), ma vedono anche chiaramente che molti altri pazienti potrebbero farne tranquillamente a meno. I farmaci anzi in certi casi non fanno che confondere le acque. Spesso infatti, quando un paziente si sente meglio – perché, oltre ai farmaci, attraverso una terapia psicologica ha imparato a pensare in maniera più corretta e realistica, ha affrontato concretamente alcune criticità che lo facevano stare male o lo rendevano insoddisfatto, ha ripreso ad aver più cura di sé –, comincia a pensare di ridurre e poi togliere i farmaci, si pone inevitabilmente questa domanda: “ma sto meglio perché sto prendendo i farmaci, oppure perché ho imparato a reagire al malessere e all’insoddisfazione? Sono io che sono diventato più forte o è il farmaco che mi sostiene?”. Questa incertezza talvolta non interferisce nel percorso terapeutico: il paziente riduce progressivamente la terapia e continua a stare bene; in altri casi invece la persona è in tensione, perché dubita che in larga misura il suo ritrovato benessere dipenda solo dal farmaco. Quando il farmaco si riduce, la tensione perciò aumenta, compare qualche sintomo ansioso, dovuto non tanto al farmaco che non protegge più, ma probabilmente al convincimento di essere “senza protezione” (i nostri pensieri possono indurre facilmente l’incremento dell’ansia), ed ecco che il nostro paziente, preda di una sorta di effetto nocebo (il contrario del placebo), giunge alla conclusione di aver bisogno del farmaco.
La diagnostica psicologica deve perciò essere attenta a distinguere le forme depressive più profonde, che difficilmente si risolvono senza ausili farmacologici, dalle sintomatologie depressive che traggono invece beneficio soprattutto dai cambiamenti nel modo di affrontare la vita, nel modo di dare significato agli eventi, nel modo di reagire – anche fisicamente – a questa sorta di forza invisibile che appesantisce la persona e la trascina in basso. La terapia cognitivo comportamentale (CBT), in particolare, propone da decenni trattamenti mirati alla riduzione delle problematiche di tipo depressivo ed a tutt’oggi, in particolare, le metodiche della ristrutturazione cognitiva, del problem-solving e dell’attivazione comportamentale costituiscono tre degli ingredienti fondamentali per la riduzione dei sintomi. Molto apprezzato inoltre è l’impiego dei protocolli di mindfulness, soprattutto a seguito di ricadute.
Emilio Franceschina