Il disturbo da accumulo, noto anche come hoarding, sindrome di accumulo compulsivo o accumulo patologico, è una condizione psicologica caratterizzata dall’incapacità di liberarsi di oggetti inutili o non necessari, indipendentemente dal loro valore pratico o affettivo. Questo comportamento porta alla progressiva accumulazione di una grande quantità di oggetti, spesso fino al punto in cui gli spazi vitali diventano inutilizzabili. La persona affetta da questo disturbo sperimenta notevoli difficoltà nel separarsi dai propri beni, anche quando tali oggetti compromettono la sicurezza o la funzionalità dell’ambiente domestico.
E’ importante non dimenticare che l’hoarder non è una sorta di collezionista – come talvolta cerca di far credere ai familiari -, ma una presenta che presenta un disturbo assai ben definito. Infatti, il collezionista raccoglie oggetti specifici al fine di completare una raccolta spesso definita a priori e razionale, conservando tali oggetti in modo accurato. Inoltre, non di rado il collezionista, una volta terminata la raccolta, può disfarsene, vendendola – magari a caro prezzo – per poi ripartire con una nuova collezione. L’accumulatore compulsivo invece conserva o raccoglie alla rinfusa oggetti (talvolta anche dai cassonetti), cianfrusaglie di nessun valore, talvolta con l’idea di una possibile utilità futura. Ricordo a questo proposito un paziente che aveva riempito letteralmente un garage di pezzi di legno e di manici di ombrelli, con l’idea di poterne fare in futuro un mobiletto.
L’accumulatore compulsivo non raccoglie solo oggetti. L’accumulo può estendersi anche ad animali domestici. In questi casi, in spazi spesso ristretti, come un comune appartamento, i pazienti ospitano vere e proprie colonie di cani o di gatti, che oltre a vivere in condizioni decisamente poco salutari e di soffrire spesso di malnutrizione, finiscono naturalmente per rendere ancora più critica la condizione igienica dell’ambiente che li ospita. Queste situazioni estreme finiscono spesso per creare grande disagio anche nel vicinato e a necessitare dell’intervento delle autorità sanitarie.
Dal punto di vista scientifico, il disturbo da accumulo è classificato all’interno del gruppo dei disturbi ossessivo-compulsivi (DOC) nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), la principale classificazione utilizzata dagli psichiatri per diagnosticare i disturbi mentali. I criteri del DSM-5, molto sinteticamente, sono i seguenti:
Dal punto di vista neurobiologico, alcune ricerche suggeriscono che ci possa essere una predisposizione genetica al disturbo da accumulo. Studi condotti su gemelli identici hanno evidenziato una maggiore concordanza per il disturbo tra i gemelli omozigoti rispetto ai gemelli dizigoti, suggerendo un componente ereditario. Tuttavia, l’ereditabilità non è l’unico fattore coinvolto, poiché anche fattori ambientali, come traumi infantili o eventi stressanti, possono contribuire alla manifestazione del disturbo.
A livello psicologico, il disturbo da accumulo è spesso associato a problemi di autostima, ansia e depressione. Le persone affette da questo disturbo possono sviluppare un attaccamento emotivo eccessivo agli oggetti, considerandoli estensioni di sé stesse o associando loro un significato simbolico. L’accumulo di oggetti diventa quindi un modo per affrontare l’ansia o il disagio emotivo, fornendo una sorta di “sicurezza” psicologica.
Il trattamento del disturbo da accumulo è complesso e multidimensionale. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è spesso utilizzata come approccio principale, mirando a modificare i modelli di pensiero distorti e a promuovere comportamenti più adattivi. La terapia può includere anche tecniche di esposizione graduale, dove la persona è gradualmente esposta all’idea di separarsi dagli oggetti accumulati. Inoltre, è spesso coinvolta la terapia farmacologica, utilizzando farmaci antidepressivi o ansiolitici per gestire i sintomi associati al disturbo.
In conclusione, il disturbo da accumulo rappresenta una condizione complessa che coinvolge fattori genetici, neurobiologici e psicologici. La sua gestione richiede un approccio professionale che combini interventi terapeutici e farmacologici. La comprensione scientifica di questo disturbo è in continua evoluzione, con la speranza che ricerche future possano portare a una migliore comprensione delle sue cause e a modalità di trattamento più efficaci.