IL DISTURBO DI ACCUMULO

Il disturbo da accumulo, noto anche come hoarding, sindrome di accumulo compulsivo o accumulo patologico, è una condizione psicologica caratterizzata dall’incapacità di liberarsi di oggetti inutili o non necessari, indipendentemente dal loro valore pratico o affettivo. Questo comportamento porta alla progressiva accumulazione di una grande quantità di oggetti, spesso fino al punto in cui gli spazi vitali diventano inutilizzabili. La persona affetta da questo disturbo sperimenta notevoli difficoltà nel separarsi dai propri beni, anche quando tali oggetti compromettono la sicurezza o la funzionalità dell’ambiente domestico.

E’ importante non dimenticare che l’hoarder non è una sorta di collezionista – come talvolta cerca di far credere ai familiari -, ma una presenta che presenta un disturbo assai ben definito. Infatti, il collezionista raccoglie oggetti specifici al fine di completare una raccolta spesso definita a priori e razionale, conservando tali oggetti in modo accurato. Inoltre, non di rado il collezionista, una volta terminata la raccolta, può disfarsene, vendendola – magari a caro prezzo – per poi ripartire con una nuova collezione. L’accumulatore compulsivo invece conserva o raccoglie alla rinfusa oggetti (talvolta anche dai cassonetti), cianfrusaglie di nessun valore, talvolta con l’idea di una possibile utilità futura. Ricordo a questo proposito un paziente che aveva riempito letteralmente un garage di pezzi di legno e di manici di ombrelli, con l’idea di poterne fare in futuro un mobiletto.

L’accumulatore compulsivo non raccoglie solo oggetti. L’accumulo può estendersi anche ad animali domestici. In questi casi, in spazi spesso ristretti, come un comune appartamento, i pazienti ospitano vere e proprie colonie di cani o di gatti, che oltre a vivere in condizioni decisamente poco salutari e di soffrire spesso di malnutrizione, finiscono naturalmente per rendere ancora più critica la condizione igienica dell’ambiente che li ospita. Queste situazioni estreme finiscono spesso per creare grande disagio anche nel vicinato e a necessitare dell’intervento delle autorità sanitarie.

Dal punto di vista scientifico, il disturbo da accumulo è classificato all’interno del gruppo dei disturbi ossessivo-compulsivi (DOC) nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), la principale classificazione utilizzata dagli psichiatri per diagnosticare i disturbi mentali. I criteri del DSM-5, molto sinteticamente, sono i seguenti:

A. Accumulo compulsivo: La persona accumula una quantità eccessiva di oggetti inutili, indipendentemente dal loro valore reale.

B. Difficoltà nel separarsi dagli oggetti: La persona sperimenta un’ansia significativa o un disagio legato al pensiero di dover eliminare gli oggetti.

C. Accumulo comporta un deterioramento significativo: L’accumulo interferisce in modo significativo con il normale funzionamento della persona, occupando spazi vitali, creando un ambiente non sicuro o causando problemi significativi nel lavoro, nelle attività quotidiane, nelle relazioni sociali o in altre aree importanti.

D. Non legato a un altro disturbo: Il disturbo di accumulo compulsivo, per essere tale, non deve essere attribuibile a un altro disturbo mentale (ad esempio, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da attacchi di panico, disturbo depressivo maggiore, schizofrenia) e non è meglio spiegato da un altro problema medico (ad esempio, lesione cerebrale traumatica, sindrome di Prader-Willi).

E. Non dovuto a condizioni mediche generali: L’accumulo non è attribuibile a una condizione medica generale (ad esempio, disabilità intellettiva).

Per soddisfare la diagnosi di disturbo di accumulo compulsivo, la presenza di questi criteri deve persistere per un periodo significativo e causare disagio o compromissione significativa nelle aree di funzionamento della persona. La valutazione e la diagnosi di questo disturbo dovrebbero essere effettuate da professionisti della salute mentale qualificati, come psichiatri o psicologi clinici.

La prevalenza del disturbo da accumulo è stata oggetto di studi epidemiologici, e sebbene le stime possano variare, si stima che colpisca circa il 2-5% della popolazione generale. La condizione può manifestarsi in persone di tutte le età, ma spesso si sviluppa gradualmente nel corso del tempo. Le cause del disturbo da accumulo non sono completamente comprese, ma fattori genetici, neurobiologici e ambientali possono contribuire al suo sviluppo.

Dal punto di vista neurobiologico, alcune ricerche suggeriscono che ci possa essere una predisposizione genetica al disturbo da accumulo. Studi condotti su gemelli identici hanno evidenziato una maggiore concordanza per il disturbo tra i gemelli omozigoti rispetto ai gemelli dizigoti, suggerendo un componente ereditario. Tuttavia, l’ereditabilità non è l’unico fattore coinvolto, poiché anche fattori ambientali, come traumi infantili o eventi stressanti, possono contribuire alla manifestazione del disturbo.

A livello psicologico, il disturbo da accumulo è spesso associato a problemi di autostima, ansia e depressione. Le persone affette da questo disturbo possono sviluppare un attaccamento emotivo eccessivo agli oggetti, considerandoli estensioni di sé stesse o associando loro un significato simbolico. L’accumulo di oggetti diventa quindi un modo per affrontare l’ansia o il disagio emotivo, fornendo una sorta di “sicurezza” psicologica.

Il trattamento del disturbo da accumulo è complesso e multidimensionale. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è spesso utilizzata come approccio principale, mirando a modificare i modelli di pensiero distorti e a promuovere comportamenti più adattivi. La terapia può includere anche tecniche di esposizione graduale, dove la persona è gradualmente esposta all’idea di separarsi dagli oggetti accumulati. Inoltre, è spesso coinvolta la terapia farmacologica, utilizzando farmaci antidepressivi o ansiolitici per gestire i sintomi associati al disturbo.

In conclusione, il disturbo da accumulo rappresenta una condizione complessa che coinvolge fattori genetici, neurobiologici e psicologici. La sua gestione richiede un approccio professionale che combini interventi terapeutici e farmacologici. La comprensione scientifica di questo disturbo è in continua evoluzione, con la speranza che ricerche future possano portare a una migliore comprensione delle sue cause e a modalità di trattamento più efficaci.

DEPRESSIONE O INFELICITA’, COME DISTINGUERLE?

I disturbi depressivi sono una classe di disturbi molto diffusi in tutto il mondo. Non riguardano solo gli adulti o gli anziani, ma possono colpire molto precocemente anche i bambini, anche se questi tendono a mostrare la loro depressione in modo diverso dagli adulti, divenendo più irrequieti ed irritabili.

Nel secolo scorso la depressione, per la sua estrema diffusione, spesso anche associata al “logorio della vita moderna” – come recitava una famosa pubblicità – è stata spesso definita “il male del secolo”. Naturalmente occorre osservare che dietro una categoria clinica così ampia e generale vi possono essere molte distinzioni. Molti quadri depressivi sono infatti prodromici (cioè sono l’inizio di qualche disturbo, che non sempre è la depressione), oppure transitori (sono cioè solo di passaggio, associati a qualche evento o a qualche fenomeno che scomparirà, magari spontaneamente), oppure evolutivi (molti adolescenti ad es. vivono una fase di malessere e di inquietudine, che ha a che fare con la crescita, con la paura del futuro, le insicurezze dell’età, ecc.), altri sono reattivi (sono cioè la chiara conseguenza di un evento tragico o duro da accettare, come la perdita di una persona cara, un licenziamento, la fine di un rapporto sentimentale, ecc.), altri infine sembrano nascere dal nulla, magari ai cambi di stagione e sono quelli che sembrano avere a che fare con aspetti endogeni del nostro organismo, misteriosi interruttori che sembrano accendere/spegnere la vitalità della persona seguendo invisibili cicli naturali.

In un suo celebre libro, “La trappola della felicità”, Russ Harris ha scritto che la nostra cultura si ostina a dipingere gli esseri umani come naturalmente portati ad essere felici, cosa che implica, conseguentemente, che l’infelicità sia considerata a priori qualcosa di patologico ed innaturale, e quindi malattia, alla quale diamo principalmente il nome di depressione. Molte statistiche indicano tuttavia che circa il 20% delle persone presenta sintomi depressivi e che addirittura un adulto su dieci nel mondo nel corso della sua vita tenta il suicidio. La probabilità statistica di soffrire, prima o poi, di un disturbo psichiatrico sarebbe del 30% (che allegria!). Come dire, noi esseri umani siamo certamente esposti a sperimentare tutta la gamma degli stati emotivi, non solo quelli positivi, che ci fanno stare bene e che cerchiamo di prolungare il più possibile, ma anche quelli negativi. L’ansia, il malessere, la preoccupazione, la tristezza sono tutte condizioni statisticamente “normali” e naturali della vita, che periodicamente incontriamo lungo la strada e che non possiamo pretendere di evitare completamente. Non sono degli “intrusi”, istanze innaturali o entità aliene, sebbene naturalmente non costituiscano per noi degli ospiti graditi.

Non c’è dubbio tuttavia che le parole che scegliamo abbiano un loro peso nel definire le cose e anche nel giudizio che noi diamo di noi stessi e della nostra condizione. Quando abbiamo l’umore a terra, siamo depressi o infelici? Qual è il termine più adatto. Se utilizziamo il termine depresso, questo richiama indubbiamente l’idea di un disturbo, qualcosa che non va nella nostra mente. Quello che proviamo sembra non avere senso per gli altri, sembra esagerato (a riprova che è un disturbo). Infatti molti pazienti che soffrono sintomi depressivi vengono quasi rimproverati dagli altri – che magari cercano in buona fede di farli reagire – con parole come “non hai niente, dovresti essere felice, cosa ti manca?”. Quando si è depressi serve subito un medico o uno psicologo che aggiusti le cose, perché si tratta di qualcosa di patologico. Se invece noi diciamo che la persona è infelice tutto sembra meno “ospedaliero”, suona più esistenziale, un turbamento profondo, legittimo. giustificato dalle avversità della vita. Eppure, è molto probabile che questa persona stia provando dentro di sé fondamentalmente le stesse cose.

Personalmente credo che sia vero che molti disturbi psicologici siano effettivamente molto presenti nella nostra epoca, ma penso anche che vi sia una tendenza eccessiva a classificare in termini di malattia anche condizioni psicologiche che possono anche essere più comunemente annoverate come “male di vivere”. In un altro bel libro “Primo: Non curare chi è normale”, un famoso psichiatra americano, Allen Frances, sottolinea questo concetto. È assolutamente vero che la sofferenza depressiva esiste, sia che sia dovuta ad un fenomeno biochimico, sia che sia dovuta ad un dispiacere, o a quant’altro, ma non c’è dubbio che si debbano distinguere con attenzione i livelli di gravità. La Depressione (con la D maiuscola), da un lato, e le condizioni a carattere depressivo maggiormente associate con le avversità della condizione umana, dall’altro. Le prime sono quelle in cui la persona perde letteralmente la sua vitalità, non prova più interesse né piacere nelle cose, sembra spenta, senza energie, non ha alcun desiderio in particolare, vorrebbe solo riposare, non avere più alcun peso da sopportare. La altre condizioni possono essere caratterizzate da grande sofferenza emotiva, dolore e pianto, ma la persona emotivamente è presente, è viva, continua ad agire nella realtà, sebbene con fatica. I quadri depressivi meno gravi non impediscono alla persona di mantenere un sufficiente funzionamento. Probabilmente queste persone hanno bisogno di risolvere alcuni problemi (talvolta assolutamente pratici), fanno una vita poco soddisfacente, non hanno molte relazioni o amicizie appaganti. Perché una persona dovrebbe essere felice se è sola, annoiata, ha un reddito basso ed un lavoro che non le piace? Gli interventi psicoterapeutici sono indubbiamente anch’essi cura – non per nulla contengono la parola terapia – ma intendono aiutare la persona a reagire alla sintomatologia depressiva (o all’infelicità e all’insoddisfazione) agendo attivamente alla ricerca di ciò che dà maggior senso alla propria vita.

I farmaci antidepressivi vanno bene soprattutto per i soggetti molto depressi, come ha ampiamente dimostrato in una serie di celebri studi Irving Kirsch, mentre sono molto meno utili ed efficaci per gli altri, per chi è meno depresso. Gli psicoterapeuti che vedono nella loro carriera numerosi pazienti depressi, si accorgono che alcuni di loro (quelli più gravi) vengono effettivamente aiutati dai farmaci (e delle volte, purtroppo, solo dai farmaci), ma vedono anche chiaramente che molti altri pazienti potrebbero farne tranquillamente a meno. I farmaci anzi in certi casi non fanno che confondere le acque. Spesso infatti, quando un paziente si sente meglio – perché, oltre ai farmaci, attraverso una terapia psicologica ha imparato a pensare in maniera più corretta e realistica, ha affrontato concretamente alcune criticità che lo facevano stare male o lo rendevano insoddisfatto, ha ripreso ad aver più cura di sé –, comincia a pensare di ridurre e poi togliere i farmaci, si pone inevitabilmente questa domanda: “ma sto meglio perché sto prendendo i farmaci, oppure perché ho imparato a reagire al malessere e all’insoddisfazione? Sono io che sono diventato più forte o è il farmaco che mi sostiene?”. Questa incertezza talvolta non interferisce nel percorso terapeutico: il paziente riduce progressivamente la terapia e continua a stare bene; in altri casi invece la persona è in tensione, perché dubita che in larga misura il suo ritrovato benessere dipenda solo dal farmaco. Quando il farmaco si riduce, la tensione perciò aumenta, compare qualche sintomo ansioso, dovuto non tanto al farmaco che non protegge più, ma probabilmente al convincimento di essere “senza protezione” (i nostri pensieri possono indurre facilmente l’incremento dell’ansia), ed ecco che il nostro paziente, preda di una sorta di effetto nocebo (il contrario del placebo), giunge alla conclusione di aver bisogno del farmaco.

La diagnostica psicologica deve perciò essere attenta a distinguere le forme depressive più profonde, che difficilmente si risolvono senza ausili farmacologici, dalle sintomatologie depressive che traggono invece beneficio soprattutto dai cambiamenti nel modo di affrontare la vita, nel modo di dare significato agli eventi, nel modo di reagire – anche fisicamente – a questa sorta di forza invisibile che appesantisce la persona e la trascina in basso. La terapia cognitivo comportamentale (CBT), in particolare, propone da decenni trattamenti mirati alla riduzione delle problematiche di tipo depressivo ed a tutt’oggi, in particolare, le metodiche della ristrutturazione cognitiva, del problem-solving e dell’attivazione comportamentale costituiscono tre degli ingredienti fondamentali per la riduzione dei sintomi. Molto apprezzato inoltre è l’impiego dei protocolli di mindfulness, soprattutto a seguito di ricadute.

Emilio Franceschina

COME VINCERE GLI ATTACCHI DI PANICO

Molte persone che hanno avuto la dolorosa esperienza dell’attacco di panico ritengono erroneamente che quanto capitato loro sia qualcosa di straordinario ed inspiegabile. Al contrario, l’attacco di panico è un’esperienza piuttosto comune. Alcuni ricercatori hanno registrato che negli Stati Uniti più di ¼ della popolazione riporta di aver avuto almeno un attacco di panico nel corso della vita. Si stima inoltre che circa dal 3 al 5% ne abbia avuto uno nel corso dell’ultimo anno. In circa la metà dei casi questo episodio può evolvere in un vero e proprio disturbo, cosa che implica lo sviluppo di conseguenze associate (soprattutto la costante paura di avere altri attacchi e la tendenza ad evitare via via sempre più contesti e situazioni).

Durante un attacco di panico si assiste alla comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano una serie di sintomi caratteristici, come ad es:
• Palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia;
• Sudorazione;
• Tremori (fini o grossi);
• Dispnea o sensazione di soffocamento o di mancanza d’aria;
• Dolore o fastidio al petto;
• Nausea o disturbi addominali;
• Sensazioni di vertigine, di instabilità, di «testa leggera» o di svenimento;
• Brividi o vampate di calore;
• Parestesie (sensazioni di torpore o formicolio);
• Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (sentirsi per alcuni secondi come distaccati da se stessi);
• Paura di perdere il controllo o di «impazzire»;
• Paura di morire.

Non basta un singolo episodio di panico per determinare un vero e proprio disturbo. È possibile diagnosticare un Disturbo di panico quando si hanno (1) ricorrenti attacchi di panico; (2) la preoccupazione persistente di avere altri attacchi; (3) una significativa alterazione disadattiva del comportamento correlata agli attacchi (ad es. la necessità di evitare molte situazioni); (4) dei cambiamenti nel proprio comportamento e nelle proprie abitudini – derivato dal timore di avere altri attacchi – per la durata di almeno un mese.

Gli attacchi di panico possono presentarsi con alcune varianti, vi possono essere, ad es. attacchi di panico notturni, in cui il soggetto si sveglia di solito già con il battito cardiaco accelerato, spesso agitato e con una sensazione di mancanza d’aria; gli attacchi di panico situazionali o parzialmente dipendenti dalla situazione sono invece quegli episodi che capitano in concomitanza con determinate situazioni (ad es. nei centri commerciali o sul treno o in situazioni di “imbottigliamento”, come le code); vi possono essere poi attacchi definiti paucisintomatici, in cui si presentano solo sintomi meno intensi, oppure si assiste ad una sorta di escalation emotiva per qualche secondo, che poi sfuma velocemente; gli attacchi di panico possono anche presentarsi in gravidanza, talvolta anche nell’imminenza del parto; vi sono infine attacchi di panico indotti da situazioni traumatiche, che compaiono cioè in associazione con luoghi o situazioni che richiamano nel soggetto un evento traumatico (ad es. un luogo in cui ha avuto un incidente, la esposizione ad un forte rumore improvviso, lo stridìo di una frenata, ecc.). Gli attacchi che sopraggiungono all’improvviso sono detti non-segnalati (uncued), mentre quelli associati a specifiche situazioni sono detti segnalati (cued).

È molto importante sapere che il Disturbo di panico è oggi un problema che ha ottime probabilità di essere risolto efficacemente. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) in particolare ha proprio nel trattamento del disturbo di panico il suo “cavallo di battaglia”. Vengono impiegati infatti dei trattamenti che sono talmente consolidati nella pratica clinica da essere dei veri e propri protocolli. Il paziente viene innanzitutto messo nelle condizioni di avere una conoscenza corretta ed approfondita del suo disturbo. Questo lo aiuta a capire che quei sintomi, seppur così intensi e spaventosi, hanno tuttavia un “perché” piuttosto noto, sia dal punto di vista psicologico che fisiologico. Non c’è nulla di magico o misterioso in quello che sta succedendo, ma qualcosa di molto più “sensato”, comune e comprensibile. La persona verrà quindi aiutata ad apprendere come gestire i sintomi, ad es. con tecniche di rilassamento, così da iniziare a ridurli, prendendo atto che questi non sono così incontrollabili come sembrano. Una metodica chiamata ristrutturazione cognitiva aiuterà inoltre il paziente a identificare e modificare quei pensieri che sono in grado di far aumentare la probabilità di avere un attacco. Il paziente infine sarà aiutato ad avere meno paura di sintomi ansiosi e situazioni ansiogene, imparando ad affrontare gli uni e le altre, attraverso esercizi di esposizione, metodiche che la ricerca scientifica ha identificato ormai da molti anni come quello in assoluto più efficaci per superare il disturbo.

Le tempistiche sono di solito piuttosto rapide, in particolare per quelle persone che hanno questi sintomi da poco tempo (ad es. qualche settimana o mese) e che non hanno altri disturbi in comorbidità. Le linee guida dell’American Psychological Association – la più grande associazione scientifica psicologica del mondo – indicano di norma 12-16 sessioni di trattamento, che corrispondono a circa 3-4 mesi di sedute settimanali. La durata può essere maggiore, come detto, con persone che hanno una lunga storia di disturbo (alcuni pazienti si rivolgono agli psicologi CBT dopo anni e anni o dopo aver seguito a lungo altri trattamenti inefficaci). In questi casi il trattamento tende ad essere più impegnativo, soprattutto perché la persona ha esteso il proprio malessere a molti contesti e situazioni (un aspetto che si chiama generalizzazione), ma tuttavia il risultato tende di solito ad essere raggiunto ugualmente, magari soltanto in tempi più lunghi.

Emilio Franceschina

NON CHIAMATEMI PIU’ IPOCONDRIACO

Le preoccupazioni che riguardano la salute possono costituire un fenomeno ampio e diffuso tra le persone e talvolta divenire centrali nella propria quotidianità. In tempo di Covid-19, a maggior ragione, ognuno di noi ha probabilmente pensato, in maniera più o meno ansiosa, cosa potrebbe capitare in caso di positività, sua o di un proprio caro, prefigurando scenari in grado di ingenerare un significativo malessere emotivo. Avere a cuore la propria salute e quella dei propri cari non è affatto qualcosa di negativo o di patologico in sé, ma in molti casi può rappresentare la sacrosanta razionale tutela del proprio benessere e della propria vita.

È tuttavia noto a tutti che alcune persone sembrano preoccuparsi eccessivamente del pericolo di ammalarsi, in questi casi sembra che ogni piccolo sintomo o segnale proveniente dal corpo sia in grado di mettere in moto un meccanismo ansiogeno che deve trovare il suo necessario epilogo, prima o poi, in una rassicurazione, in una ricetta, in una visita medica o in un esame strumentale.

Poiché preservare la propria salute, come detto, è in sé “sano”, ma cercare di preservarla in modo eccessivo può divenire decisamente “malsano”, la psicologia clinica si è interrogata su dove stia il confine tra i due modi di reagire a questo tipo di sintomi e pensieri, ovvero su quando la reazione psicologica alla malattia o al rischio di malattia divenga essa stessa disturbo.

Il DSM-5, ossia il manuale internazionale che contiene l’attuale classificazione dei disturbi mentali secondo l’Associazione Psichiatrica Americana, in questa sua ultima edizione, ha mostrato un importante cambiamento di prospettiva rispetto al passato, su questo argomento. È per esempio scomparsa la categoria diagnostica denominata ipocondria. Ciò è dovuto, naturalmente, non tanto al fatto che un determinato modo di rapportarsi con i segnali provenienti dal proprio corpo sia oggi ritenuto “normale”, ma piuttosto al fatto che questo termine, impiegato anche nel linguaggio di senso comune, ha assunto ormai un significato fondamentalmente offensivo, corrispondente all’idea che il soggetto sia una sorta di malato immaginario, come ben rappresentato nella celeberrima commedia di Molière.

Non si tratta solo di impiegare un linguaggio più corretto e meno giudicante, sulla scia del politically correct, ma anche di voler rimarcare che la realtà di questo tipo di disturbi è mal rappresentata da questo termine, anche dal punto di vista concettuale. Questi problemi vanno oggi di norma inclusi nella categoria denominata Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati. Quello che caratterizza questo tipo di disturbi è la rilevanza che assumono i sintomi somatici – da cui, appunto, la denominazione – associati a disagio e compromissione significativi sul piano emotivo e comportamentale. Non è affatto implicito in questi disturbi che il soggetto “non abbia niente”, dal punto di vista fisico, e che “il problema sia solo nella sua testa”, come suggerisce il termine ipocondria nell’uso comune. Invece, le cose sono più complesse di così, anche perché questi disturbi sono piuttosto diversi tra loro. Non si parte più dal principio che il paziente semplicemente si immagini i disturbi che teme, ma si ritiene piuttosto che il soggetto viva in maniera disfunzionale – e con una reazione di eccessivo allarme – qualunque segnale provenienti dal proprio corpo, sia quelli minori – che ai più suonano innocui o “normali” – sia quelli che possano avere una loro “logica” fisiologica. Chi ha questo tipo di ansia relativa al corpo ed alle malattie, non inventa necessariamente nulla, ma piuttosto attribuisce significati catastrofici ai segnali del corpo, non riuscendo poi a tollerare la risposta emotiva che ne consegue (l’ansia) ed andando conseguentemente alla ricerca di qualche forma di rassicurazione (da parte dei medici, dei familiari, dei siti internet, ecc.). Si configura la presenza di un disturbo quando questi pensieri e questi comportamenti creano forte disagio emotivo e prendono sempre più spazio nella vita della persona, tanto da interferire fortemente sul suo funzionamento.

La diagnosi di questo tipo di disturbi può pertanto applicarsi anche nel caso in cui il soggetto abbia effettivamente una malattia somatica diagnosticata. Se, ad esempio, un paziente diabetico o un altro asmatico vivono costantemente in allarme, rispetto al rischio di poter svenire o di non riuscire a respirare, sentono costantemente qualcosa che non va nel loro corpo, misurano ripetutamente valori glicemici o abusano dei rimedi atti a scongiurare le difficoltà respiratorie di fronte a minimi indizi – che potrebbero anche essere dovuti all’ansia –, non ci troviamo certo di fronte a qualcuno che “simula” o crea una patologia nella propria “fantasia”, ma piuttosto ad una persona che ha bisogno di essere aiutata a gestire in maniera più corretta, serena e realistica la patologia che effettivamente ha.

La nuova classificazione prevede fondamentalmente due quadri clinici che subentrano all’inquadramento precedente, che sono denominati, rispettivamente, Disturbo da sintomi somatici e Disturbo da ansia di malattia. Nel primo sono compresi il 75% di coloro che in precedenza ricevevano la diagnosi di ipocondria, mentre il restante 25% oggi risponde ai criteri per l’ansia da malattia. Questi due disturbi sono abbastanza simili, in realtà, poiché in entrambi i casi la persona è fortemente preoccupata per la propria salute e mette in moto una serie di azioni “protettive”, per un periodo di non meno di 6 mesi. Ciò che li differenzia è soprattutto il fatto che, mentre nel primo i sintomi somatici sono sempre lamentati dal paziente come presenti (e talvolta sono anche dolorosi), nel Disturbo da ansia di malattia il soggetto può avere sintomi minimi o anche non avere sintomi, ma “presagire” il possibile sopraggiungere di una malattia e quindi mettere in atto un ampio numero di azioni preventive, temendo l’insorgere di una grave malattia. Nell’ansia di malattia il soggetto può riferire di sentirsi molto a disagio sentendo anche solo nominare una patologia da lui fortemente temuta. La maggior parte di questi soggetti, per fronteggiare tali paure, tende a richiedere assistenza medica, visite, esami ecc. (è questo il tipo richiedente assistenza), mentre una parte minoritaria tende invece ad evitare visite e controlli, nel timore che da queste il medico possa “trovare qualcosa” (è questo il tipo evitante l’assistenza). Quest’ultima tipologia, come si può facilmente intuire, può essere esposta paradossalmente a maggiori rischi per la salute, poiché il prolungato evitamento dei normali controlli e check-up di routine – normalmente consigliati in rapporto ai fattori di rischio individuali – può di fatto impedire la diagnosi precoce, ovvero una delle armi più potenti di cui dispone la medicina moderna nella cura di alcune tra le patologie con più elevata mortalità.

Per dare aiuto a questi pazienti, la Terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si concentra sulla conoscenza del modus operandi del paziente, ed in particolare sul suo modo di dare significato ai segnali provenienti dal corpo. I percorsi trattamentali sono mirati a modificare innanzitutto gli aspetti cognitivi del disturbo, orientando la persona verso un modo di gestire la propria salute più corretto e razionale. La continua ricerca di rassicurazioni da parte del paziente, inoltre, non fa altro che peggiorare il problema – anziché risolverlo – poiché risponde all’esigenza, del tutto irrealista, e quindi non raggiungibile, di essere totalmente certi della propria assoluta integrità fisica, presente e futura. Similmente a quello che succede assumendo una droga, ogni rassicurazione, ogni ricetta, ogni visita, placando temporaneamente l’ansia, diviene sempre più indispensabile e finisce per assume il carattere di compulsività, ogni giorno di più. La soluzione, evidentemente, non può essere questa ed il percorso terapeutico è pertanto mirato a smantellare questo meccanismo.

Emilio Franceschina

PERCHÉ L’ANSIA NON È IN SÉ UNA MALATTIA

Il termine “ansia” è oggi estremamente noto e diffuso in molti contesti e situazioni, sia nel suo significato più generale e comune – ossia ad es. la percezione soggettiva di sentirsi tesi o fisicamente agitati e preoccupati – sia nei suoi vari significati associati a contesti specialistici – come ad es. l’idea di una reazione dei neurotrasmettitori o dell’aumento dell’attivazione dell’organismo. Tuttavia è piuttosto diffusa l’idea, specialmente tra i non-specialisti, che l’ansia sia comunque non solo un elemento negativo della nostra esistenza, ma che rappresenti in sé un fenomeno patologico, disfunzionale, una “malattia”.

Anche molti pazienti ne sono convinti e parlano spesso della loro ansia negli stessi termini in cui potrebbero parlare di una infezione o di una colica renale. Restano pertanto un poco sorpresi quando qualcuno presenta loro un modo differente di intendere questa comune reazione emotiva. Intendiamoci bene: l’ansia non è affatto qualcosa di simpatico, piacevole o auspicabile. Tuttavia la stessa cosa la potremmo dire del mal di denti o del mal di pancia: ma cosa ne sarebbe di noi se non avvertissimo i segnali del dolore? Probabilmente non saremmo avvisati per tempo che sta succedendo qualcosa di potenzialmente dannoso per la nostra salute o per la nostra sopravvivenza, come un’infezione o una intolleranza. Pensate se noi esseri umani non avessimo, come del resto gli altri animali, i “sensori” del dolore. Probabilmente, se mai una specie simile minimamente evoluta dovesse essere comparsa sulla terra, si sarebbe velocemente estinta. Il dolore ci impedisce di “andare oltre” nell’eseguire qualcosa che ci danneggia, ci avverte che qualcosa non sta funzionando nel nostro corpo, ci costringe a fermarci prima che sia troppo tardi – qualcuno ricorderà la tragica morte di Tom Simpson, al Tour de France negli anni ’60, il cui cuore letteralmente scoppiò perché le amfetamine che il ciclista aveva assunto gli avevano impedivano di sentire in segnali del caldo e della fatica ed il dolore dati dall’eccessivo sforzo fisico.

Analogamente, potremmo osservare che l’ansia è quella reazione emotiva che compare quando la persona avverte la presenza di una potenziale minaccia, ancor prima che essa si sia palesata nel proprio ambiente. Una delle definizioni più usate, infatti, per descrivere questo fenomeno è quella dell’ansia come aspettativa di un pericolo. Con il termine aspettativa, intendiamo quindi che il soggetto non si trova in quel momento esattamente di fronte al pericolo (quella sarebbe quella risposta emotiva che definiamo paura). La persona cioè può aver percepito la presenza di qualche segnale (che può essere interno o esterno) che ha attivato in una frazione di secondo un insieme di risposte dell’organismo, poiché a quel segnale è stato attribuito il significato di minaccia (reale o potenziale). Questo segnale può essere interno o esterno. Un segnale esterno è ad es. un fruscio nella boscaglia, un rumore alle nostre spalle, ecc. tutti indizi della presenza di un potenziale pericolo. Il segnale d’allarme, in sostanza, scatta ancora prima di essere certi che vi sia un effettivo pericolo, si limita a mettere sull’avviso, per aiutarci a preparare quanto prima eventuali contromisure, a sviluppare un eventuale piano di difesa. I segnali interni possono invece essere, innanzitutto, i segnali enterocettivi, come ad es. il dolore, il cuore che batte veloce, la sensazione di mancanza d’aria. Sono spesso questi i segnali di pericolo che avverte una persona che ha avuto la sgradevole esperienza di un attacco di panico.

Quanto ai segnali interni, tuttavia gli esseri umani sono assai più ben dotati. Infatti noi siamo essere pensanti, siamo dotati di linguaggio, attribuiamo significati a ciò che ci succede, siamo in grado di ripensare a quello che ci è capitato in passato e di anticipare quello che ci potrebbe capitare in futuro. Questo è ciò che principalmente distingue i termini ansia e paura. L’ansia è la reazione psicofisiologica ad un potenziale pericolo, mentre la paura è la reazione al pericolo. L’organismo in sostanza fa pressoché le stesse cose (in questo senso, le reazioni di ansia e paura sono sovrapponibili), ma nel caso della paura il soggetto si trova di fronte alla fonte concreta e visibile del pericolo (ad esempio, per i nostri antenati, la vista di un orso), mentre quando il nostro progenitore, dentro la caverna pensava “…e se domani che vado a caccia di lepri incontro un orso?”, in quel caso era l’ansia che non lo faceva dormire.

Questo importante aspetto proprio della nostra capacità di pensare e di attribuire significati e giudizi alle cose della vita, che chiamiamo cognitivo, è di grande rilevanza per la nostra vita quotidiana. Molto spesso il nostro malessere non è dato da quello che stiamo concretamente facendo – mangiando, parlando, camminando, guidando l’auto, ecc. – ma principalmente dal semplice fatto che stiamo pensando. Il pericolo, la minaccia, la scocciatura, la potenziale brutta figura, ecc. non sono lì in quel momento, ma sono cose che potrebbero capitarci (forse) nel futuro, domani o fra mesi e mesi, eppure ci stiamo preoccupando e stiamo emotivamente male già adesso. In quei momenti, il pensiero ansiogeno è divenuto analogo alla realtà sensibile, alla vita vera. In questo caso pertanto scopriamo che l’ansia può avere da un lato una funzione adattiva senza la quale saremmo estinti (darci la possibilità di “anticipare” i pericoli), dall’altro può renderci la vita sgradevole se il pensiero del pericolo diventa una presenza costante della nostra quotidianità, con una frequente presenza di intrusioni (cioè di cose che entrano di continuo in testa alle quali non vorremmo pensare) e poi di rimuginazioni (cioè il fatto di pensare e ripensare alle cose che temiamo, sperando di riuscire a trovare un modo per rassicurarci).

È quindi molto importante riuscire a distinguere l’ansia dai disturbi d’ansia. L’ansia è un’emozione che caratterizza tutti gli esseri umani e che ha una funzione in sé adattiva. Ci permette anche di stare in guardia, di essere maggiormente reattivi (pensiamo a quanto più attenti e concentrati possiamo essere quando siamo di fronte ad una prova importante). Usiamo il termine eustress, per definire queste risposte emotive “buona”, quelle che ci aiutano a vincere la finalissima. Esistono però anche quelle “cattive”, che possiamo associare al termine distress. In questo caso, quando l’ansia è troppo intensa, non ci ricordiamo più quello che abbiamo studiato, il nostro agire è meno organizzato e razionale, la prestazione peggiore.

Non dobbiamo pertanto considerarci degli ansiosi solo perché talvolta proviamo ansia. Guai se non la provassimo (potremmo avere addirittura qualche altra patologia ben peggiore). Dobbiamo però essere consapevoli se ha cominciato a prendere piede l’altra faccia della medaglia, l’ansia che anziché proteggerci non ci lascia vivere sereni. Quando l’ansia prende troppo spazio nella nostra vita, comincia a divenire una presenza costante, ci invade sotto forma di preoccupazioni, di rimuginii, di sintomi di agitazione e di tensione e, soprattutto di evitamenti (ci sono cioè delle cose che non facciamo più, luoghi o situazioni che abbiamo paura di affrontare), potremmo aver sviluppato un disturbo d’ansia. Ce ne sono diversi, che gli psicologi clinici possono molto velocemente diagnosticare, attraverso il colloquio e impiegando qualche questionario. Alcuni di questi disturbi non pongono dubbi alla persona, perché i sintomi sono talmente intensi da far comprendere immediatamente che sta succedendo qualcosa che non va. è questo il caso dell’attacco di panico, una manifestazione ansiosa molto intensa, e piuttosto comune, che non di rado spinge le persone a recarsi al pronto soccorso, per accertarsi che quello che sta capitando non sia un infarto o un ictus.

Diciamo che in tutto questo c’è anche un risvolto che rende meno preoccupante la situazione, e cioè il fatto che i disturbi ansiosi sono molto ben trattati dagli psicologi cognitivo-comportamentali. Potremmo anzi dire che sono “il cavallo di battaglia” di ogni terapeuta CBT. In particolare se la sintomatologia acuta è relativamente recente, le metodiche CBT prevedono trattamenti altamente efficaci e piuttosto brevi (anche solo una decina di sedute). Anche gli ansiolitici sono naturalmente in grado di ridurre efficacemente la sintomatologia ansiosa, ma hanno un maggior tasso di ricadute, per il semplice fatto che non insegnano niente al paziente – ad es. come affrontare ciò di cui ha paura. La terapia cognitivo comportamentale invece è una psicoterapia con forte taglio educativo, che aiuta ed incoraggia fin da subito la persona ad affrontare i sintomi e le situazioni che teme, come avrò modo di descrivere in altri articoli che seguiranno.

Emilio Franceschina

IL PIACERE DELLA PSICOLOGIA

Non è facile trovare le parole giuste per iniziare un percorso nuovo, ma necessariamente denso di rimandi rivolti a ciò che lo ha preceduto. Premetto che gli articoli che saranno via via pubblicati in questo sito – e che spero saranno ai più graditi – sono pensati per coloro che si avvicinano con interesse alla psicologia, agli studenti, ai pazienti, ai familiari che si chiedono, ad esempio, se quella data “cattiva abitudine” o quel “vizio” che presenta un loro congiunto possa essere in realtà, o meno, un disturbo.

Sono curioso di scoprire quanto lo scrivere sul questo mio spazio professionale possa essere gradevole, per me che scrivo e per chi ha voglia di leggere. Nella mia storia professionale ho scritto e pubblicato diversi articoli, capitoli di libri, libri, traduzioni, lavori specialistici anche di un certo rilievo – pur non essendo io propriamente un accademico –, ma tutti lavori la cui leggibilità è, nella maggior parte dei casi, alquanto ridotta. Dubito fortemente che un domani qualcuno dei miei figli possa provare interesse o piacere a leggere qualche mio scritto specialistico, tedioso e freddino, di fatto molto poco “comunicativo”. Esiste inoltre la forte probabilità che uno dei suddetti figli, una volta terminata faticosamente una tale lettura, si rivolga a me con una espressione del tipo: “…e quindi?”.

Fortunatamente non devo più fare carriera, non ho più l’onere di fare punteggio accumulando lavori scientifici che quasi nessuno leggerà, scritti ormai ridotti a mere stringhe di citazioni bibliografiche, quasi fossero codici a barre di un prodotto commerciale. Preferisco rivolgere la mia attenzione ad un modo diverso di praticare e di raccontare la psicologia.

Il fascino della psicologia

Questa materia affascinante può anche venir facilmente trasformata in un qualcosa di criptico, gratuitamente cervellotico e assolutamente distante dalla logica scientifica. Ho l’impressione che alcuni colleghi intendano talvolta più stupire l’interlocutore con contenuti ad effetto anziché fornirgli strumenti di conoscenza fondati sulla metodologia scientifica e che sotto sotto traggano un sottile piacere dal cogliere sul volto altrui dei chiari segnali di non-comprensione, secondo una logica per cui tanto più un contenuto è poco comprensibile, tanto più è vero ed autorevole, ed è appannaggio di pochi eletti (naturalmente iperdotati intellettivamente). Le tante tematiche della psicologia fondata sulla ricerca scientifica possono divenire invece argomenti molto gradevoli ed interessanti e possono venir illustrati in modo chiaro e comprensibile a tutti coloro che vogliono avvicinarsi a queste tematiche con curiosità, affascinati dai misteri della mente e del funzionamento del cervello. Si può fare una buona e seria divulgazione scientifica senza necessariamente abbassare il livello di qualità a quello dei settimanali di pettegolezzi da sfogliare sotto l’ombrellone.

La psicologia clinica, in particolare, è ciò di cui mi voglio occupare. È il mio ambito professionale, la mia materia di insegnamento da ormai vent’anni all’Università, il mio interesse principale da sempre. Ho avuto la fortuna di studiare in una grande Università – quella di Padova, dove tuttora ho un contratto di insegnamento – in una delle due sole sedi italiane dove “ai miei tempi” (come si usa dire dopo i cinquanta) ci si poteva laureare in psicologia (l’altra sede era Roma). Psicologia era un corso di laurea apparentemente un po’ “sgarrupato” – come si dice – ma solo per il fatto che le aule delle lezioni al tempo erano sparpagliate per diversi edifici cittadini, spesso vecchi e malandati. Ma la sostanza della formazione era invece, già allora, molto diversa. In quegli anni eroici si seguivano le lezioni tenute da docenti di grande spessore, professori che per insegnare utilizzavano a malapena la lavagna luminosa con i lucidi. Ascoltare molte di quelle lezioni era per me letteralmente ipnotico. Noi studenti seguivamo attentamente un docente per quasi due ore, nonostante parlasse senza aiuti multimediali, prendendo avidamente appunti. Pensate che ancora oggi mi accorgo di citare alcune frasi, esempi o metafore, sentite a lezione nei lontani anni ’80.

La conoscenza della psicologia era per noi studenti un piacere. Si studiava senza sforzo, perché si era curiosi ed avidi di sapere. Spesso oggi ritrovo quel piacere quando svolgo le supervisioni con gli specializzandi in psicoterapia o con alcuni pazienti, e mi accorgo che ciò accade perché in questi casi si tende a cambiare registro e spesso anche lessico, rispetto al linguaggio specialistico delle lezioni accademiche o dei congressi o delle pubblicazioni scientifiche.

Creare un buon clima terapeutico

Posso aggiungere che l’attività clinica in sé tende anche ad essere più efficace quando si svolge in un clima positivo e gradevole. Costruire un tale clima spetta, naturalmente, quasi esclusivamente al terapeuta e molte variabili possono contribuire a crearlo. Tra queste, ne vorrei ricordare due. La prima è quella rappresentata dal riuscire a condurre colloqui clinici capaci, almeno in parte, di saper dissimulare il loro essere terapia. Il clima si alleggerisce quando si riesce a non medicalizzare la sofferenza emotiva delle persone, trasmettendo la chiara idea che, nel contesto psicoterapeutico, più che curare malattie si deve aiutare una persona a risolvere problemi ed a cambiare alcuni aspetti del proprio stile di vita. L’ansia o la paura di qualcosa, ad esempio possono essere concepiti non esclusivamente come disturbi o sintomi da eliminare (anche farmacologicamente), ma anche e soprattutto come criticità da imparare ad affrontare e gestire. La parola chiave, in molti casi, non è guarire, ma piuttosto cambiare. Cambiare può voler dire rivedere la lista delle priorità della propria vita, sviluppare delle più adeguate abilità interpersonali, imparare ad affrontare meglio situazioni ansiogene, riuscire a vedere le cose in modo più realistico, trovare la giusta motivazione per il cambiamento, tutte cose che (ahimè) non si trovano dentro un farmaco. La seconda condizione è quella di riuscire a stabilire una buona relazione terapeutica, una vera e propria alleanza. Alleanza significa qualcosa che va ben oltre il concetto più noto di compliance, che implica che il paziente debba semplicemente seguire le prescrizioni e perciò più adatto ai trattamenti farmacologici. I concetti di aderenza e alleanza terapeutica sono invece più tipici del rapporto psicologo-paziente, in sé più articolato e dialettico, in cui il paziente deve sentirsi accolto, ascoltato e compreso, totalmente libero di esprimere difficoltà, malesseri e sentimenti inconfessabili, in un clima non-giudicante, in un clima di collaborazione e con “spirito di squadra”. Il percorso terapeutico viene pertanto concordato e condiviso tra paziente e terapeuta, solo così si possono raggiungere degli obiettivi.

La terapia cognitivo comportamentale

E qui veniamo alla Terapia Cognitivo Comportamentale, sintetizzata nell’acronimo CBT (ossia Cognitive Behavioral Therapy), che è il mio modo di fare psicoterapia. Ritengo che molti interventi psicologici, per affrontare problemi e disturbi, siano troppo concentrati sul capire e sul conoscere, mentre dovrebbero indirizzarsi principalmente al risolvere. Si dirà che per risolvere bisogna prima capire e conoscere. Verissimo, ma aggiungerei che è necessario conoscere/capire solo lo stretto necessario (e che possibilmente sia anche certo). Di fronte alla diagnosi di alcuni disturbi – come ad es. quelli ansiosi o quelli ossessivo-compulsivi – per allontanare la persona dal baratro in cui sta precipitando, come detto, bisogna anche fare presto. Certi disturbi si estendono assai velocemente (è un fenomeno chiamato generalizzazione) e rischiano velocemente di cronicizzarsi. Bisogna pertanto andare dritti al nocciolo del problema, alle sue manifestazioni visibili, al come è fatto un disturbo, al significato che il paziente attribuisce ai sintomi, non a quale ne possa essere la (ipotetica e mai verificabile) causa profonda. Se agendo in un modo così diretto e pragmatico, la sintomatologia si riduce, allora vuol dire che il terapeuta ha agito su dei fattori causali, di tipo funzionale, ovvero sulle cause note, vicine e certe. È questa una delle particolarità della CBT, un insieme di metodiche in cui il terapeuta si chiede fin da subito se vi siano metodi o strategie per dare immediato aiuto alla persona, in maniera concreta, pensata, visibile, documentabile e, possibilmente, rapida.

Avrò modo progressivamente di ampliare questi concetti, che non sono solo elementi tecnico-metodologici, ma rappresentano anche principi etici e deontologici, mirati al riconoscimento del diritto del paziente a ricevere, sempre e comunque, trattamenti efficienti e di dimostrata efficacia. Spero di poter fornire contributi interessanti, che possano divenire spunti di riflessione ed interesse e che riescano a trasmettervi il piacere di conoscere la psicologia, in particolare quella cognitivo comportamentale, ma non solo. Buona lettura.

Emilio Franceschina

 

 

 

 

Ipocondria o Ansia di malattia?

Il termine ipocondria non viene più impiegato in psicologia clinica. Come considerare oggi chi mostra una eccessiva preoccupazione per la propria salute?

Presentazione di CBT in pillole

Video di apertura e di presentazione del canale di divulgazione scientifica “CBT in pillole”, dedicato alla Terapia Cognitivo Comportamentale.