Le preoccupazioni che riguardano la salute possono costituire un fenomeno ampio e diffuso tra le persone e talvolta divenire centrali nella propria quotidianità. In tempo di Covid-19, a maggior ragione, ognuno di noi ha probabilmente pensato, in maniera più o meno ansiosa, cosa potrebbe capitare in caso di positività, sua o di un proprio caro, prefigurando scenari in grado di ingenerare un significativo malessere emotivo. Avere a cuore la propria salute e quella dei propri cari non è affatto qualcosa di negativo o di patologico in sé, ma in molti casi può rappresentare la sacrosanta razionale tutela del proprio benessere e della propria vita.

È tuttavia noto a tutti che alcune persone sembrano preoccuparsi eccessivamente del pericolo di ammalarsi, in questi casi sembra che ogni piccolo sintomo o segnale proveniente dal corpo sia in grado di mettere in moto un meccanismo ansiogeno che deve trovare il suo necessario epilogo, prima o poi, in una rassicurazione, in una ricetta, in una visita medica o in un esame strumentale.

Poiché preservare la propria salute, come detto, è in sé “sano”, ma cercare di preservarla in modo eccessivo può divenire decisamente “malsano”, la psicologia clinica si è interrogata su dove stia il confine tra i due modi di reagire a questo tipo di sintomi e pensieri, ovvero su quando la reazione psicologica alla malattia o al rischio di malattia divenga essa stessa disturbo.

Il DSM-5, ossia il manuale internazionale che contiene l’attuale classificazione dei disturbi mentali secondo l’Associazione Psichiatrica Americana, in questa sua ultima edizione, ha mostrato un importante cambiamento di prospettiva rispetto al passato, su questo argomento. È per esempio scomparsa la categoria diagnostica denominata ipocondria. Ciò è dovuto, naturalmente, non tanto al fatto che un determinato modo di rapportarsi con i segnali provenienti dal proprio corpo sia oggi ritenuto “normale”, ma piuttosto al fatto che questo termine, impiegato anche nel linguaggio di senso comune, ha assunto ormai un significato fondamentalmente offensivo, corrispondente all’idea che il soggetto sia una sorta di malato immaginario, come ben rappresentato nella celeberrima commedia di Molière.

Non si tratta solo di impiegare un linguaggio più corretto e meno giudicante, sulla scia del politically correct, ma anche di voler rimarcare che la realtà di questo tipo di disturbi è mal rappresentata da questo termine, anche dal punto di vista concettuale. Questi problemi vanno oggi di norma inclusi nella categoria denominata Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati. Quello che caratterizza questo tipo di disturbi è la rilevanza che assumono i sintomi somatici – da cui, appunto, la denominazione – associati a disagio e compromissione significativi sul piano emotivo e comportamentale. Non è affatto implicito in questi disturbi che il soggetto “non abbia niente”, dal punto di vista fisico, e che “il problema sia solo nella sua testa”, come suggerisce il termine ipocondria nell’uso comune. Invece, le cose sono più complesse di così, anche perché questi disturbi sono piuttosto diversi tra loro. Non si parte più dal principio che il paziente semplicemente si immagini i disturbi che teme, ma si ritiene piuttosto che il soggetto viva in maniera disfunzionale – e con una reazione di eccessivo allarme – qualunque segnale provenienti dal proprio corpo, sia quelli minori – che ai più suonano innocui o “normali” – sia quelli che possano avere una loro “logica” fisiologica. Chi ha questo tipo di ansia relativa al corpo ed alle malattie, non inventa necessariamente nulla, ma piuttosto attribuisce significati catastrofici ai segnali del corpo, non riuscendo poi a tollerare la risposta emotiva che ne consegue (l’ansia) ed andando conseguentemente alla ricerca di qualche forma di rassicurazione (da parte dei medici, dei familiari, dei siti internet, ecc.). Si configura la presenza di un disturbo quando questi pensieri e questi comportamenti creano forte disagio emotivo e prendono sempre più spazio nella vita della persona, tanto da interferire fortemente sul suo funzionamento.

La diagnosi di questo tipo di disturbi può pertanto applicarsi anche nel caso in cui il soggetto abbia effettivamente una malattia somatica diagnosticata. Se, ad esempio, un paziente diabetico o un altro asmatico vivono costantemente in allarme, rispetto al rischio di poter svenire o di non riuscire a respirare, sentono costantemente qualcosa che non va nel loro corpo, misurano ripetutamente valori glicemici o abusano dei rimedi atti a scongiurare le difficoltà respiratorie di fronte a minimi indizi – che potrebbero anche essere dovuti all’ansia –, non ci troviamo certo di fronte a qualcuno che “simula” o crea una patologia nella propria “fantasia”, ma piuttosto ad una persona che ha bisogno di essere aiutata a gestire in maniera più corretta, serena e realistica la patologia che effettivamente ha.

La nuova classificazione prevede fondamentalmente due quadri clinici che subentrano all’inquadramento precedente, che sono denominati, rispettivamente, Disturbo da sintomi somatici e Disturbo da ansia di malattia. Nel primo sono compresi il 75% di coloro che in precedenza ricevevano la diagnosi di ipocondria, mentre il restante 25% oggi risponde ai criteri per l’ansia da malattia. Questi due disturbi sono abbastanza simili, in realtà, poiché in entrambi i casi la persona è fortemente preoccupata per la propria salute e mette in moto una serie di azioni “protettive”, per un periodo di non meno di 6 mesi. Ciò che li differenzia è soprattutto il fatto che, mentre nel primo i sintomi somatici sono sempre lamentati dal paziente come presenti (e talvolta sono anche dolorosi), nel Disturbo da ansia di malattia il soggetto può avere sintomi minimi o anche non avere sintomi, ma “presagire” il possibile sopraggiungere di una malattia e quindi mettere in atto un ampio numero di azioni preventive, temendo l’insorgere di una grave malattia. Nell’ansia di malattia il soggetto può riferire di sentirsi molto a disagio sentendo anche solo nominare una patologia da lui fortemente temuta. La maggior parte di questi soggetti, per fronteggiare tali paure, tende a richiedere assistenza medica, visite, esami ecc. (è questo il tipo richiedente assistenza), mentre una parte minoritaria tende invece ad evitare visite e controlli, nel timore che da queste il medico possa “trovare qualcosa” (è questo il tipo evitante l’assistenza). Quest’ultima tipologia, come si può facilmente intuire, può essere esposta paradossalmente a maggiori rischi per la salute, poiché il prolungato evitamento dei normali controlli e check-up di routine – normalmente consigliati in rapporto ai fattori di rischio individuali – può di fatto impedire la diagnosi precoce, ovvero una delle armi più potenti di cui dispone la medicina moderna nella cura di alcune tra le patologie con più elevata mortalità.

Per dare aiuto a questi pazienti, la Terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si concentra sulla conoscenza del modus operandi del paziente, ed in particolare sul suo modo di dare significato ai segnali provenienti dal corpo. I percorsi trattamentali sono mirati a modificare innanzitutto gli aspetti cognitivi del disturbo, orientando la persona verso un modo di gestire la propria salute più corretto e razionale. La continua ricerca di rassicurazioni da parte del paziente, inoltre, non fa altro che peggiorare il problema – anziché risolverlo – poiché risponde all’esigenza, del tutto irrealista, e quindi non raggiungibile, di essere totalmente certi della propria assoluta integrità fisica, presente e futura. Similmente a quello che succede assumendo una droga, ogni rassicurazione, ogni ricetta, ogni visita, placando temporaneamente l’ansia, diviene sempre più indispensabile e finisce per assume il carattere di compulsività, ogni giorno di più. La soluzione, evidentemente, non può essere questa ed il percorso terapeutico è pertanto mirato a smantellare questo meccanismo.

Emilio Franceschina